Evitare la chemioterapia post operatoria quando non è necessaria. Grazie ad un test ematico e all’analisi delle cellule immunitarie presenti nel tumore al colon-retto tutto ciò, se in presenza di particolari caratteristiche, potrebbe diventare realtà. In queste settimane due importanti studi -pubblicati rispettivamente su Nature Medicine e Nature Communications– hanno posto le basi verso una personalizzazione delle cure. Potendo indagare le caratteristiche della malattia e la capacità del sistema immunitario di controllare la crescita tumorale è emerso che il ricorso alla chemioterapia post operatoria per ridurre il rischio di recidiva non sempre è necessario. Un passo avanti verso una cura dei tumori sempre meno invasiva e attenta alla qualità di vita del malato. – Così in un focus della Fondazione Umberto Veronesi.
Che cos’è il tumore al colon?
Ogni anno in Italia, secondo i dati dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica, sono circa 48 mila le nuove diagnosi di tumore del colon-retto. In circa il 20% dei casi la malattia viene purtroppo scoperta quando è già in metastasi. Si tratta di un tumore che si sviluppa e cresce, nella maggior parte dei casi, senza sintomi di particolare evidenza. Per questo è particolarmente importante eseguire gli esami di diagnosi precoce che consentono di segnalare la presenza di polipi o individuare la malattia a uno stadio iniziale. Il tumore del colon-retto infatti ha una lenta evoluzione. Prima si formano dei polipi, successivamente questi possono andare incontro ad una evoluzione verso il vero e proprio tumore. Intercettarli sul nascere permette di evitare che ciò accada. – Proseguono dalla Fondazione.
Come si cura?
La cura del tumore del colon dipende dal grado di evoluzione della malattia. In linea generale il primo intervento è rappresentato dalla chirurgia. L’operazione, nei casi in cui è possibile, prevede la rimozione della massa tumorale. Successivamente, a seconda della stadiazione della malattia e della presenza di eventuali metastasi, si procede con la chemioterapia. Ad esempio quelli diagnosticati in fase III presentano un rischio di recidiva elevato. Per questa ragione, come per molti tumori, i pazienti vengono sottoposti a chemioterapia adiuvante per evitare il rischio che il tumore di ripresenti. Ad inizio anni duemila diversi studi hanno dimostrato che la miglior combinazione per ridurre al minimo questo rischio è rappresentata dall’utilizzo dell’oxaliplatino alla fluoropirimidina.
Dna circolante per prevedere il rischio di recidiva
I tumori del colon però non sono tutti uguali. A seconda delle caratteristiche presentano un rischio di recivida più o meno elevato anche all’interno della stesso grado di stadiazione. Non solo, si calcola che circa il 40% dei pazienti con tumore del colon retto vada incontro a una recidiva dopo l’intervento chirurgico indipendentemente dalla terapia seguita. Conoscere le caratteristiche della malattia è indispensabile per capire se ad un paziente serve realmente la chemioterapia o si può evitare, con tutti i vantaggi in termini di qualità di vita della mancata somministrazione. Un aiuto potrebbe arrivare dalla biopsia liquida, un test in cui attraverso un prelievo sanguigno si vanno a ricercare le eventuali tracce residue del tumore. Un recente studio pubblicato da Nature Medicine, sfruttando un test volto a ricercare frammenti di Dna tumorale circolante in mille pazienti operati per tumore del colon a diversa stadiazione, ha dimostrato che è possibile prevedere quali pazienti presentano un alto grado di recidiva e chi uno basso. Dalle analisi, opera dei ricercatori del National Cancer Center Hospital East di Kashiwa (Giappone) è emerso che quando il test era positivo -ovvero erano rilevabili tracce di Dna post-chirurgia- le persone avevano un rischio di recidiva 10 volte più elevato rispetto a quelli negativi al test. Un risultato importante -seppur ottenuto su mille pazienti e dunque da confermare con numeri più ampi- che fornisce una chiara indicazione su chi potrebbe evitare la chemioterapia e chi ne necessità a causa dell’elevato rischio di recidiva.
Il ruolo dei linfociti nella ripresa della malattia
Ma le novità non finiscono qui perché, in un’ottica di integrazione delle informazioni, uno strumento in più per prevedere il rischio di recidiva potrebbe essere l’analisi del tessuto tumorale prelevato durante la chirurgia ed in particolare la caratterizzazione dell’infiltrato tumorale, ovvero le cellule del sistema immunitario che colonizzano la malattia nel tentativo di eliminarla. Uno studio da poco pubblicato su Nature Communications -ad opera di Luigi Nezi, Teresa Manzo e Silvia Tiberti dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano- ha mostrato come la presenza di particolari cellule sia associata ad un maggiore rischio di recidiva. In particolare, confrontando diversi tessuti tumorali con altri sani, è emerso che la presenza di neutrofili CD 15 e cellule T CD8 effettrici di memoria con alto GZMKun aiutava le cellule tumorale a crescere. Al contrario, bassi livelli di queste componenti, non avevano effetto sulla crescita. Quanto ottenuto indica chiaramente la possibilità di analizzare l’infiltrato tumorale per meglio indirizzare le cure e diminuire il rischio recidiva. Ma non solo: l’aver scoperto il ruolo di queste cellule aprirà ora la strada alla possibilità di sviluppare molecole in grado di modularne la funzione con l’obbiettivo si spegnere la loro attività pro-tumorale. – Aggiungono dalla Fondazione Umberto Veronesi.
Prospettive future
Quanto ottenuto nei due studi rappresenta un grande passo in avanti nella lotta al tumore del colon-retto. Passi avanti che non comprendono solo la cura ma anche il miglioramento della qualità di vita dei pazienti che, in casi selezionati e come sta accadendo per altre neoplasie come il tumore al seno, potranno evitare una chemioterapia inutile. – Fonte Fondazione Umberto Veronesi.
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