Per un farmaco arrivare al cervello è sempre un’impresa. Rispetto a quanto viene iniettato, specialmente per trattamenti di “grandi” dimensioni come gli anticorpi, la quantità che giunge a destinazione è sempre molto poca. Colpa della scarsa permeabilità della barriera ematoencefalica, la membrana che avvolge il cervello. Utilizzare gli ultrasuoni potrebbe però essere la soluzione per aumentarne la permeabilità. Uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine ha dimostrato che nelle persone con Alzheimer è possibile migliorare il trattamento con anticorpi monoclonali utilizzando proprio gli ultrasuoni. Un metodo che potrebbe essere esteso anche ad altre malattie.
Che cos’è l’Alzheimer?
Nel mondo, secondo i dati dell’organizzazione mondiale della Sanità, sono oltre 55 milioni le persone che convivono con l’Alzheimer, una delle principali cause di disabilità e non autosufficienza tra le persone anziane. Si tratta di una malattia neurodegenerativa che porta alla progressiva perdita delle cellule nervose e delle loro connessioni. Come avviene per gli altri organi quando sono danneggiati, le lesioni dell’Alzheimer causano una perdita di funzione cerebrale sino alla demenza. Da un punto di vista fisiopatologico la malattia di Alzheimer, essenzialmente, è causata dalla formazione e dalla presenza di ammassi di proteina beta-amiloide che danneggia i neuroni. Ecco perché in tutti questi anni la ricerca si è concentrata nel tentativo di colpire questi ammassi nella speranza di contrastare il danno ai neuroni.
I primi farmaci approvati
Dopo una serie di insuccessi, dovuti principalmente alla difficoltà nella produzione di questi anticorpi e nella mancanza di marcatori validi a monitorare il decorso della malattia, l’ultimo periodo è stato caratterizzato da un crescente successo della ricerca. La scorsa estate l’FDA americana, basandosi sui risultati dello studio clinico di fase III Clarity, ha approvato l’utilizzo dell’anticorpo lecanemab nel trattamento dell’Alzheimer. In particolare dalle analisi dello studio è emerso che nei pazienti con lieve declino cognitivo e con presenza di placche beta-amiloidi confermata, il trattamento con l’anticorpo ha portato ad una riduzione della progressione della malattia.
Poche settimane dopo, call’Alzheimer’s Association International Conference, sono stati presentati ulteriori dati incoraggianti dello studio TRAILBLAZER-ALZ 2 su donanemab, altro anticorpo diretto contro una porzione delle placche amiloidi. Dalle analisi, pubblicate contemporaneamente su JAMA Neurology, è merso che donanemab ha rallentato in modo significativo il declino cognitivo e funzionale nei pazienti con malattia di Alzheimer sintomatica precoce positiva per l’amiloide, riducendo il rischio di progressione. Quasi la metà dei partecipanti trattati con donanemab nello stadio iniziale della malattia non hanno mostrato progressione clinica a 1 anno. Infine ulteriori analisi di sottopopolazione hanno dimostrato che i partecipanti allo studio con malattia in fase più precoce hanno avuto un beneficio ancora maggiore, con un rallentamento del declino del 60% rispetto al placebo.
Arrivare al cervello
Risultati importanti che non rappresentano però la soluzione all’Alzheimer. Una delle principali difficoltà nel trattamento della malattia è legata alla fatica con cui fare arrivare il farmaco all’interno del cervello. Solo una piccola quota di quanto iniettato riesce infatti ad arrivare indenne al bersaglio. Ecco perché i ricercatori stanno tentando di identificare nuovi metodi per aumentare la quantità di farmaco che riesce a raggiungere le placche amiloidi. Una soluzione per aumentare la permeabilità dei vasi sanguigni potrebbe essere rappresentata dall’utilizzo degli ultrasuoni. I ricercatori statunitensi del Rockefeller Neuroscience Institute, dopo aver testato la strategia nel modello animale (il farmaco aumenta la sua concentrazione di 5-8 volte), sono riusciti a dimostrare che attraverso l’utilizzo di ultrasuoni è possibile aumentare temporaneamente la permeabilità dei capillari in modo tale da aumentare la quantità di farmaco che arriva nel cervello. Lo studio, che ha coinvolto solo 3 pazienti con Alzheimer lieve, ha portato risultati importanti: grazie a questa strategia gli scienziati sono riusciti a diminuire la presenza delle placche beta-amiloidi nell’area sottoposta al trattamento rispetto ad altre aree cerebrali non “irraggiate” con gli ultrasuoni. Una dimostrazione della fattibilità del metodo che è valsa la pubblicazione sul New England Journal of Medicine.
Non solo Alzheimer
Quanto ottenuto nello studio dovrà ora essere validato con ulteriori indagini. Il metodo però potrebbe essere presto replicato per altre patologie. Esistono infatti molti farmaci che non riescono ad arrivare nel cervello al bersaglio prefissato. E’ questo il caso, ad esempio, di diversi farmaci antitumorali. Gli ultrasuoni potrebbero risolvere questo problema. Una strategia potenzialmente rivoluzionaria. – Fonte Fondazione Umberto Veronesi.